Security through obscurity: perché nascondere i problemi non li risolve

Nel mondo della cybersicurezza, esiste un concetto tanto affascinante quanto pericoloso conosciuto come security through obscurity. È l’idea secondo cui un sistema può essere considerato sicuro finché il suo funzionamento rimane nascosto o poco documentato. In altre parole, se nessuno sa come è fatto, nessuno potrà attaccarlo. Un’illusione che ha accompagnato per decenni lo sviluppo di software, protocolli e infrastrutture, ma che oggi – nell’era dell’interconnessione globale, del reverse engineering e dell’accesso diffuso alle informazioni tecniche – mostra tutte le sue debolezze.

Storicamente, questa pratica si è manifestata soprattutto in ambito tecnico: sistemi proprietari e codice chiuso non sottoposti a revisione pubblica. Ma se in passato questa strategia poteva rappresentare una difesa accettabile, oggi non è più così. La conoscenza tecnica è ampiamente distribuita, le vulnerabilità vengono individuate e condivise in tempi rapidissimi, e contare sull’anonimato di una configurazione o sulla scarsa notorietà di un prodotto è un errore che molti attaccanti sono pronti a sfruttare.

Tuttavia, la versione più insidiosa di questo approccio non si trova più solo nel codice, ma nella cultura delle organizzazioni. Sempre più spesso, infatti, la security through obscurity assume una forma diversa e più pericolosa: quella della reticenza, del silenzio e della rimozione consapevole del problema. Aziende che non parlano dei propri incidenti. Dirigenti che evitano di affrontare le lacune evidenti nei sistemi. Responsabili IT che preferiscono non sollevare criticità, per non esporsi. Il risultato è una sicurezza apparente, costruita sull’occultamento e sulla negazione del rischio, anziché sulla trasparenza e sulla resilienza.

In molti casi si tratta di una scelta più culturale che tecnica, più psicologica che strategica: “se non ne parliamo, forse il problema non esiste”. Una convinzione che può portare a ignorare vulnerabilità note, a rimandare aggiornamenti critici, a evitare audit e simulazioni d’attacco, con la speranza che nessuno – hacker compresi – se ne accorga. È una forma di autoinganno, che produce danni molto più profondi di quelli visibili nell’immediato.

Perché se c’è una verità che la cybersicurezza ha dimostrato negli anni è questa: non esistono sistemi perfettamente inviolabili, ma esistono organizzazioni preparate e organizzazioni vulnerabili. E tra le più vulnerabili, ci sono proprio quelle che continuano a nascondere la polvere sotto il tappeto.

I limiti del concetto

Per comprendere il concetto di security through obscurity, è utile partire dalla sua definizione più classica: un sistema è considerato sicuro nella misura in cui i dettagli del suo funzionamento sono mantenuti segreti. In altre parole, la sicurezza non deriva dalla robustezza intrinseca del sistema, ma dal fatto che esso è nascosto agli occhi del pubblico e, si spera, anche degli aggressori.

Nei primi decenni dell’informatica, la convinzione era semplice: se il codice è invisibile, se la documentazione è scarsa, se l’accesso è limitato, allora l’intero sistema sarà più difficile da compromettere. In un’epoca in cui le competenze informatiche erano riservate a pochi specialisti, questa strategia poteva sembrare decisamente efficace.

Ma nel tempo, questo approccio si è rivelato inutile. La comunità scientifica e quella hacker hanno dimostrato che la segretezza non è un sostituto della sicurezza. Un sistema realmente sicuro deve poter resistere anche se i suoi meccanismi sono pubblicamente noti. Anzi, proprio la trasparenza, la documentazione, la revisione pubblica e il confronto tra esperti rappresentano oggi le basi su cui costruire infrastrutture davvero resilienti.

Nell’era attuale – dove esistono strumenti automatici di scansione, piattaforme di vulnerability disclosure e comunità globali dedicate all’analisi del software – la segretezza come unica difesa non solo è inefficace, ma addirittura dannosa. Perché un sistema non sottoposto a revisione è un sistema più fragile. Un software chiuso al controllo esterno è un software che potrebbe contenere bug critici, backdoor involontarie o configurazioni insicure, senza che nessuno se ne accorga in tempo.

Oggi la security through obscurity è riconosciuta come un falso amico: un’illusione di sicurezza che può tradursi in esposizione silenziosa. Eppure, nonostante i suoi limiti evidenti, continua a influenzare molte scelte strategiche e culturali, come vedremo nei punti successivi.

L’approccio nelle aziende

Se la security through obscurity ha mostrato i suoi limiti sul piano tecnico, è a livello culturale che oggi rappresenta una delle insidie più pericolose per le imprese. In particolare, nelle piccole e medie aziende italiane, si sta consolidando una forma di sicurezza “taciuta”, che non si fonda sulla prevenzione strutturata, bensì sull’occultamento delle criticità. In molte realtà, il problema non è tanto la mancanza di soluzioni o di competenze, quanto l’assenza di un atteggiamento consapevole e trasparente verso il rischio.

Accade così che le vulnerabilità vengano considerate questioni marginali, che non vale la pena affrontare finché non si traducono in un danno concreto. Gli incidenti, quando si verificano, vengono minimizzati o taciuti del tutto. Le informazioni sugli attacchi subiti non circolano all’interno dell’organizzazione, figuriamoci all’esterno. I problemi noti, anche quando potrebbero essere risolti con interventi relativamente semplici, restano congelati nella speranza che nessuno se ne accorga. Si preferisce non affrontare apertamente la questione della cybersicurezza, per non generare allarmismi, per evitare attriti interni, o semplicemente perché ammettere un punto debole viene vissuto come una sconfitta.

Questa forma di rimozione non nasce sempre da negligenza. Spesso è il risultato di una mentalità diffusa, che separa nettamente la tecnologia dal core business e relega la sicurezza a un problema “tecnico”, delegato esclusivamente a pochi addetti ai lavori. In altri casi, è la paura a guidare questa scelta: la paura di danneggiare la propria immagine pubblica, di perdere la fiducia dei clienti, di finire nel mirino della stampa o delle autorità. Per molte imprese, ammettere di essere state colpite da un attacco informatico significa esporsi, mettersi in discussione, e questo comporta costi non solo economici, ma anche emotivi e organizzativi.

Eppure, questa strategia del silenzio è estremamente pericolosa. Un’organizzazione che non parla delle proprie vulnerabilità non è più sicura: è solo più sola. Senza confronto interno, senza comunicazione trasparente tra ruoli tecnici e decisionali, senza una cultura diffusa del rischio, diventa difficile anche solo prendere decisioni informate. Ancora più grave è il mancato confronto esterno: non condividere le esperienze di attacco significa perdere l’occasione di imparare dagli altri, di contribuire alla sicurezza collettiva, di accedere a un ecosistema collaborativo che oggi è fondamentale per reagire con rapidità ed efficacia alle nuove minacce.

La sicurezza informatica non può essere gestita come un problema da nascondere sotto il tappeto. È una responsabilità che attraversa tutta l’organizzazione, e che richiede maturità, visione e consapevolezza. In un mondo dove le minacce si evolvono costantemente, il silenzio non è più una forma di prudenza: è una vera e propria esposizione al rischio. Proseguiremo quindi analizzando come questa mancanza di trasparenza, nelle sue molteplici forme, possa rappresentare non solo un ostacolo alla sicurezza, ma un elemento di vulnerabilità attiva.

Il problema della trasparenza

In un contesto in cui le minacce informatiche si evolvono con rapidità, la trasparenza dovrebbe essere considerata un prerequisito, non un rischio. Eppure, per molte organizzazioni, comunicare in modo chiaro e strutturato la propria postura di sicurezza rimane un tabù. La paura di ammettere falle, di riconoscere un attacco subito o anche solo di condividere un errore interno è ancora troppo forte. Questo freno culturale produce un effetto collaterale estremamente pericoloso: la mancanza di trasparenza genera isolamento, rallenta le risposte agli incidenti e ostacola l’apprendimento, sia individuale che collettivo.

La verità è che nessuna infrastruttura è perfetta. Anche le realtà più avanzate in termini di cybersecurity sono state colpite, spesso più di una volta. Ma ciò che distingue un’organizzazione resiliente da una vulnerabile non è l’assenza di problemi, bensì la capacità di riconoscerli, affrontarli e – quando opportuno – renderli oggetto di analisi condivisa. La trasparenza, infatti, non significa necessariamente esposizione pubblica totale. Si tratta, piuttosto, di sviluppare un sistema di comunicazione interna efficace, di attivare processi di reporting, di confrontarsi con partner e fornitori. In alcuni settori, questo approccio è già prassi consolidata. Nel mondo finanziario, nella sanità, nell’industria energetica, la segnalazione di incidenti è obbligatoria, formalizzata e spesso inserita in una rete di collaborazione pubblico-privata. Altrove, invece, domina ancora la logica del silenzio.

A livello normativo, questa resistenza alla trasparenza è sempre meno tollerata. Le direttive europee, prima fra tutte la NIS2, stanno spingendo in modo deciso verso una cultura della responsabilità. La mancata comunicazione può portare a sanzioni, oltre che a una perdita di fiducia sul mercato. E quando una vulnerabilità nascosta viene sfruttata – come avviene sempre più spesso – i danni reputazionali per l’azienda risultano ben più gravi di quanto sarebbe accaduto con una gestione trasparente e reattiva del problema.

Esiste poi un altro elemento chiave: la fiducia. Clienti, partner e stakeholder oggi sono molto più attenti ai temi della sicurezza. Nascondere un incidente, o peggio ancora far finta che non sia successo nulla, può compromettere in modo irreversibile la credibilità di un’organizzazione. Al contrario, affrontare un attacco con serietà, comunicarlo in modo professionale, coinvolgere le controparti interessate e spiegare le misure adottate per rimediare può rafforzare la percezione di affidabilità. In altre parole, la trasparenza non è debolezza, ma uno dei pilastri della sicurezza moderna.

Negare, minimizzare o omettere non protegge. Al contrario, espone l’organizzazione a rischi maggiori, rallenta le risposte, alimenta la sfiducia interna e rende più difficile imparare dagli errori. È solo attraverso un approccio trasparente, consapevole e condiviso che la sicurezza può diventare una risorsa competitiva, anziché un punto debole da nascondere.

Sicurezza strutturale

La vera sicurezza non è quella che si ottiene nascondendo i problemi, ma quella che nasce dal riconoscerli, analizzarli e affrontarli con metodo. Questo significa investire non solo in tecnologie, ma anche – e soprattutto – in processi, competenze e consapevolezza diffusa. Una buona infrastruttura tecnica è essenziale: firewall aggiornati, segmentazione di rete, protezione degli endpoint, monitoraggio costante, backup affidabili, sistemi di autenticazione avanzati. Ma da sola non basta. Accanto alla dimensione tecnica, serve una trasformazione culturale. Le aziende devono imparare a parlare apertamente di cybersicurezza, a coinvolgere tutte le funzioni – dal top management agli operatori – in una logica di responsabilità condivisa. Questo significa formare il personale, fare simulazioni, confrontarsi con fornitori e partner, adottare policy chiare e praticabili. Significa anche accettare che un incidente può accadere, e che ciò che conta davvero è come si reagisce: con tempestività, trasparenza, competenza

Costruire sicurezza reale

Affidarsi all’oscurità, oggi, non è più una strategia. È una scelta rischiosa che espone le aziende a una falsa sensazione di protezione e le allontana da ciò che davvero serve: consapevolezza, trasparenza, strutture robuste e reattive. La cybersicurezza moderna si costruisce con metodo, si alimenta con la cultura e si consolida con strumenti affidabili. E soprattutto, si affronta a viso aperto, sapendo che ogni punto debole non riconosciuto è un’occasione persa per rafforzare l’intero sistema.

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