Ripartire sicuri, dopo la pausa estiva

A settembre le scrivanie tornano a riempirsi, le caselle email si intasano, i ticket accumulati aspettano risposta. Tutto sembra tornato alla normalità. La rete è accesa, i dispositivi rispondono, il gestionale parte al primo clic. Ma è proprio questa apparente tranquillità a nascondere il rischio più grande.

Durante le ferie, i criminali informatici non sono andati in vacanza. Meno personale operativo, monitoraggio ridotto, aggiornamenti rimandati, attenzione ai minimi storici. In molti casi, le infrastrutture aziendali restano esposte per settimane, senza che nessuno si accorga di nulla. E quando qualcosa entra, lo fa in silenzio.

Il rientro in ufficio dovrebbe essere anche un momento di verifica. Non solo per le attività lasciate in sospeso, ma per controllare se i sistemi sono ancora integri, se qualcuno ha approfittato della pausa per insinuarsi dove non doveva. Perché la minaccia vera non è quella che si vede: è quella che si è già infiltrata e sta aspettando il momento giusto per agire.

Attenzione alla porta di servizio

Basta poco. Un aggiornamento critico rimandato. Una credenziale temporanea lasciata attiva per “emergenze estive”. Un sistema di monitoraggio che non segnala più da giorni ma che nessuno ha avuto tempo di controllare.

Molti attacchi non partono con un’esplosione. Iniziano con una scansione silenziosa, una connessione sospetta, un’esfiltrazione a basso volume. Restano invisibili fino al momento della detonazione: quando i sistemi vengono bloccati, i dati pubblicati, la reputazione compromessa. E a quel punto, troppo spesso, si scopre che il punto di ingresso era lì da settimane.

Il problema non è solo la mancanza di reazione immediata. È la convinzione diffusa che basti “spegnere la luce e tornare dopo”. La cybersicurezza, invece, non si mette in stand-by. E chi la ignora, al rientro, rischia di trovarsi davanti a una rete che non è più la sua.

Reti trascurate

C’è un aspetto che spesso sfugge quando si parla di sicurezza informatica: quello che non si vede, non si tocca, non si aggiorna più da anni. Eppure, è proprio lì che si annidano i rischi più gravi. In tantissimi uffici, piccoli comuni, studi professionali o PMI, ci sono router installati da tempo, access point dimenticati, firewall lasciati con configurazioni sommarie. Nessuno li guarda più, nessuno si chiede se siano ancora sicuri. Finché la rete funziona si dà per scontato che tutto sia a posto.

Ma nel frattempo il contesto è cambiato. Le vulnerabilità si accumulano, le tecniche di attacco evolvono, e quelle scatole apparentemente innocue diventano la porta d’ingresso perfetta. Spesso espongono servizi all’esterno senza protezione, hanno interfacce di amministrazione accessibili da chiunque, magari con le stesse credenziali impostate il giorno dell’installazione.

Non servono strumenti sofisticati per trovarli. Basta una connessione internet e una manciata di query su Shodan, il motore di ricerca degli apparati connessi: in pochi secondi è possibile localizzare centinaia di dispositivi vulnerabili, con software obsoleti e configurazioni esposte. Alcuni rispondono ancora con banner datati, altri hanno pannelli di gestione senza cifratura, altri ancora mostrano nomi utente predefiniti, senza nemmeno il tentativo di nascondere l’accesso.

Questo non è un problema tecnico. È prima di tutto una questione culturale. In troppi ambienti IT persiste un atteggiamento pericoloso: se l’apparato funziona, allora va bene così. Nessuno si prende la responsabilità di verificare lo stato reale di quei dispositivi. Nessuno si pone il problema di aggiornarli, sostituirli, monitorarli. E così, sotto una superficie apparentemente tranquilla, si accumulano fragilità che possono essere sfruttate in qualsiasi momento.

Questi apparati, paradossalmente, spesso sopravvivono più a lungo dei server e delle aziende che li hanno installati. Restano lì, come mine dimenticate, pronte ad attivarsi alla prima sollecitazione.

Minacce moderne

Il phishing, negli ultimi anni, ha subito una profonda trasformazione. Quello che un tempo era un attacco generico, facilmente riconoscibile da un occhio appena attento, oggi si presenta in forme sempre più curate, mirate e difficili da individuare. Le campagne sono progettate per sembrare reali, rilevanti, familiari. E proprio per questo, pericolose.

Una recente indagine dei Kaspersky Labs ha portato alla luce una campagna particolarmente insidiosa, che basa i suoi attacchi su false comunicazioni interne inviate a nome dell’ufficio Risorse Umane o dall’amministrazione delle aziende. I messaggi, costruiti con cura, venivano personalizzati per ogni singolo destinatario, includendo nomi e riferimenti plausibili, e allegavano un documento che si presentava come un aggiornamento della documentazione aziendale. All’interno, nessuna informazione reale, ma un frontespizio ben confezionato, un indice con sezioni evidenziate, e soprattutto un codice QR che invitava a consultare la versione completa del documento.

Quel QR reindirizzava a una pagina fraudolenta, camuffata da portale aziendale, dove venivano richieste le credenziali di accesso. L’intero corpo dell’email era costruito come un’immagine, in modo da eludere i sistemi di filtro basati su parole chiave. Una tattica che mette in difficoltà anche le soluzioni di sicurezza più diffuse e che dimostra il livello di adattabilità raggiunto da chi orchestra questo tipo di attacchi.

Ma non si tratta di un caso isolato. Secondo Cisco Talos, sono in crescita anche le campagne che sfruttano file PDF come vettori di attacco. Documenti che sembrano provenire da fonti affidabili – spesso con loghi aziendali e riferimenti contestuali credibili – e che nascondono link dannosi all’interno di annotazioni, pulsanti o campi interattivi. In alcuni casi, viene simulato un messaggio, con oggetto “Variazioni nella busta paga” o “Accesso ai nuovi benefit aziendali”, per aumentare la probabilità che il destinatario interagisca.

Altra tecnica in rapida diffusione è il cosiddetto TOAD (Telephone-Oriented Attack Delivery): l’allegato PDF non contiene link, ma un numero di telefono. L’utente, credendo di dover “risolvere un problema urgente”, chiama e si trova a parlare con un operatore fittizio, spesso molto convincente, che chiede informazioni riservate o guida la vittima nell’installazione inconsapevole di malware. Questi numeri, spesso erogati tramite servizi VoIP, sono difficili da rintracciare e possono cambiare rapidamente, rendendo ancora più complicata l’identificazione della minaccia.

Tutte queste varianti hanno un elemento in comune: sfruttano la fiducia e l’abitudine. Si presentano come comunicazioni plausibili, usano strumenti familiari (email, PDF, QR code) e approfittano dei momenti in cui l’attenzione è più bassa — come il rientro dalle ferie. E il rischio, in questi casi, non è solo l’accesso non autorizzato: è la perdita di controllo sui dati, la compromissione delle credenziali, l’innesco di attacchi successivi.

Difendersi è possibile, ma richiede un cambiamento di approccio. Le soluzioni tradizionali basate solo su antivirus o filtri statici non bastano più. Serve una protezione avanzata lato email, capace di analizzare comportamento e contenuto anche all’interno degli allegati. Serve formazione continua, per aiutare ogni dipendente a riconoscere i segnali di un tentativo di frode. Serve una gestione centralizzata e attiva degli endpoint, compresi smartphone e dispositivi remoti.

Oggi il phishing non si accontenta più di colpire “a caso”. Va a segno perché conosce bene le sue vittime. E proprio per questo, la difesa deve essere altrettanto mirata.

Una questione di continuità

Uno degli errori più comuni nella gestione della sicurezza informatica è considerarla un insieme di interventi occasionali. Si interviene dopo un attacco, si aggiorna solo quando qualcosa si rompe, si controllano i log solo in caso di segnalazione. Ma la realtà dei fatti è diversa: le minacce non hanno stagionalità. Non aspettano le ferie, non rispettano i turni, non rallentano nei weekend.

La cybersicurezza richiede una logica opposta: continuità, visibilità, vigilanza. Ogni giorno in cui un’infrastruttura rimane esposta o non monitorata è un’opportunità in più per un attaccante. Ogni credenziale dimenticata, ogni aggiornamento saltato, ogni account rimasto attivo senza motivo può diventare il punto di ingresso per un’incursione che resterà invisibile fino al momento peggiore.

Il rientro dalle ferie, da questo punto di vista, è il momento ideale per fare il punto della situazione. Non solo per ripartire, ma per rivedere le priorità. Per chiedersi: i nostri dispositivi sono aggiornati? Gli accessi sono sotto controllo? I log sono integri e consultabili? I dipendenti sanno riconoscere un tentativo di phishing? Le risposte a queste domande non possono più essere rimandate.

Investire in cybersicurezza significa costruire una postura di difesa stabile, distribuita e intelligente. Significa dotarsi di strumenti capaci di rilevare attività anomale in tempo reale, di proteggere la posta elettronica con sistemi avanzati, di aggiornare automaticamente i dispositivi critici, di fornire visibilità centralizzata anche sugli endpoint più periferici. Ma soprattutto significa fare cultura. Sensibilizzare. Coinvolgere. Perché oggi la sicurezza non è più solo questione di tecnologie, ma di persone, processi e consapevolezza condivisa.

Ripartire in sicurezza

Mentre il lavoro riprende e le attività tornano a regime, è il momento giusto per chiedersi se la propria infrastruttura è davvero al sicuro. La cybersicurezza non può essere affidata all’intuito o alla fortuna, né lasciata in sospeso nei periodi di pausa. Serve un approccio continuo, strutturato e professionale.

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Che tu stia rientrando oggi o stia già programmando il futuro della tua rete, è il momento giusto per fare un check-up di sicurezza insieme a chi se ne occupa ogni giorno.
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